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Norme per il governo del territorio della Toscana, chi vuole stravolgerle?

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urbanisticaTra gli ambientalisti e coloro che hanno difeso il Piano Paesaggistico e le Norme per il governo del territorio della Regione Toscana dagli attacchi pre-elettorali, venuti dal centro-destra ma anche dall’interno del PD, sta crescendo la preoccupazione per le proposte di modifica di un importantissimo e innovativo strumento di programmazione regionale, fortemente voluto dall’ex assessore all’urbanistica Anna Marson e difeso, contro una cospicua parte del suo stesso partito, dal riconfermato presidente della Regione Enrico Rossi.

Però, a quanto pare, i  “successori” della Marson puntano a stravolgere in gran parte la struttura di norme  che erano state accolte come una grande novità e come la concreta speranza di mettere fine al consumo di suolo, partendo dalla regione più famosa del mondo per le sue bellezze paesaggistiche e per l’armonia architettonica dei suoi borghi che resiste ancora in gran parte del territorio.

Un assalto che era atteso probabilmente dallo stesso Rossi e  soprattutto dalla Marson, che ha pagato con la mancata riconferma la sua coraggiosa determinazione, ma che ora sembra assumere l’aspetto di una rivincita da parte di chi aveva in qualche modo dovuto subire il diktat del presidente della Regione che, pur accettando pesanti modifiche come per le cave di marmo delle Apuane, bloccò duramente le iniziative più sconsiderate dell’ala cementificatrice della sua ex maggioranza. Ma ora Rossi si trova di fronte a quella che sembra una manovra avvolgente e che probabilmente troverà una solida sponda entusiasta e volenterosa nello spappolato centro-destra  toscano a trazione leghista che, già ai tempi dell’egemonia di Forza Italia, fece della battaglia contro la Marson e le nuove normative regionali sul territorio  uno dei principali cavalli politici ed elettoralistici, ottenendo a dire il vero scarsi risultati in termini di voti, ma mantenendo comunque la rappresentanza delle lobbies del cemento,  che spingevano per demolire norme che temevano che avrebbe messo fine all’assalto al territorio ed alle miriadi di deroghe e “buchi” nei quali infilarsi per costruire anche dove non si potrebbe.

Legambiente Toscana, che ha difeso strenuamente  il percorso virtuoso avviato e concluso da Anna Marson durante la scorsa legislatura, è tra le organizzazioni più preoccupate per la piega che sta prendendo la “revisione” delle Norme per il governo del territorio e per questo ha trasmesso al Tavolo di Concertazione Generale una serie di osservazioni e commenti puntuali che fanno ben comprendere l’ampiezza delle manomissioni al quale potrebbe essere sottoposto uno strumento di pianificazione che portava finalmente la Toscana a livelli europei e bloccava il consumo di suolo, accompagnato da un Piano Paesaggistico che, semplicemente  mettendo sulla carta i vincoli già esistenti e chiedendone il rispetto nell’ambito di qualsiasi pianificazione urbanistica, avviava una vera e propria rivoluzione nella gestione, cura ed utilizzo del territorio, del costruito e del costruibile.

Ecco le osservazioni e commenti di Legambiente Toscana Sulla revisione della Legge Regionale N. 65/2014 (Norme per il governo del territorio)

Art.25

Fra le fattispecie molto limitate di previsioni che, comportando nuovi consumi di suolo esterni al territorio urbanizzato, sono tuttavia esonerate dalla conferenza di copianificazione, viene inserita una categoria assai più generale, ovvero “l’ampliamento delle opere pubbliche” senza ulteriori specifiche (il testo vigente faceva riferimento alle sole opere comunali). Considerando il combinato disposto con la LR 35, di cui tratteremo in seguito, sulle opere strategiche regionali, gli esiti paiono quelli di un minor diritto di voce per i Comuni interessati (e quindi per i loro abitanti). Ci chiediamo con preoccupazione se detto dispositivo non possa impattare anche le norme che regolano gli ampliamenti e le riqualificazioni aeroportuali.

Art.34

In perfetta omologia a quella dell’art.25 appena descritta, la modifica di questo articolo rende possibili le varianti urbanistiche mediante semplice approvazione del progetto, sia che si tratti di “opere pubbliche” che di “opere di pubblica utilità”, anche quando comportino effetti sovracomunali acclarati (il testo vigente, in questo caso, escludeva invece la possibilità). Anche su questa singola fattispecie, Legambiente Toscana reputa peggiorativo il nuovo testo di legge.

Art.72

Vi è un testo aggiunto, poi per fortuna barrato, che avrebbe aperto alla possibilità di trasformare gli annessi agricoli in unità abitative. Apprezziamo la cassazione, ma chi ci rassicura sul fatto che su questo fronte non si riapra la discussione in Consiglio Regionale? Ribadiamo che il contenimento del consumo di suolo in ambito rurale è uno degli assi più qualificanti della LR 65, e che ogni revisione del suo articolato, di questo aspetto politicamente dirimente dovrebbe tener conto.

Art.73

E’ stato cancellato il riferimento agli “annessi agricoli minimi”, rendendo teoricamente possibile, con il regolamento in fase di redazione, la costruzione di annessi agricoli di dimensioni rilevanti anche per chi non raggiunge i requisiti per la presentazione del Programma. Vale ancora quanto detto nel punto precedente.

Art.101

Vanno valutati attentamente gli effetti della norma, che consente l’attribuzione di compensazioni urbanistiche non soltanto se coerenti con il Piano Operativo, ma anche, in alternativa, con l’atto di ricognizione di cui all’art.125. Quest’ultimo è, per l’appunto, solo un atto di ricognizione e non un piano urbanistico propriamente detto.

Art.104

Destano grande preoccupazione le modifiche apportate al comma 2, riducendo la verifica di pericolosità ai soli aspetti idraulici e sismici, e cancellando gli aspetti idrogeologici e di dinamica costiera. Vengono altresì incomprensibilmente stralciate dalle verifiche le trasformazioni del territorio rurale.

Come riduttive e gravi sono, a nostro avviso, le modifiche apportate al comma 9, dove la riduzione del rischio viene cancellata a favore della sola mitigazione. Alla lettera c) del medesimo comma, peraltro, vi è un’aggiunta che rende incomprensibile il dispositivo di verifica vigente, indebolendolo assai.

Art.134

In questo articolo, è stata aggiunta al comma 1 una lettera b bis) nella quale vengono esplicitamente ricomprese nelle fattispecie assoggettate a permesso di costruzione i manufatti per l’attività agricola amatoriale e per il ricovero di animali domestici. A nostro avviso, andrebbe chiarito che le cucce per i cani e in generale i manufatti non ancorati al suolo, quali capanni in legno, pollai domestici ecc. non rientrano nelle fattispecie appena menzionate.

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Interpol e Forestale: i gruppi terroristici si finanziano con il traffico di avorio e specie protette

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Avorio CfsUno studio realizzato dall’Interpol e dal Corpo forestale dello Stato (Cfs) spiega che «Il traffico di avorio risulta essere  una delle fonti di finanziamento primarie dei gruppi armati collegati, a vario titolo, ai terroristi di Al Qaeda e all’ISIS», cioè lo stato Islamico/Daesh, Il denaro ricavato, da questi traffici illeciti infatti, costituisce anche una parte considerevole delle entrate delle milizie irregolari in molti Paesi africani».

L’ispettorato Generale del  Cfs aggiunge che «Le violenze sulla natura, oltre che creare un danno spesso permanente alla biodiversità del pianeta, sono fonte di profitto per il terrorismo internazionale».

Secondo l’United Nations environment programme (Unep), il traffico illegale di animali e piante e dei prodotti derivati supera i 20 miliardi di dollari l’anno e arriva a  200 miliardi comprendendo anche il traffico di legname e pesca illegale.

Il Wildlife Crime Working Group dell’Interpol,, che ha realizzato lo studio, combatte anche contro il Wildlife Trafficking con la partecipazione del  personale del Cfs, «Impegnata non soltanto a livello internazionale ma anche in prima linea in ambito nazionale al contrasto del traffico illecito di specie di animali e vegetali in via d’estinzione» dice l’Ispettorato Generale.

Dal convegno ”Traffico di specie protette e terrorismo” che si è tenuto ieri a Roma, è emerso che nel 2015 i 28 nuclei operativi e i 27 servizi territoriali del Servizio Convention on International Trade in Endangered Species of Wild Fauna and Flora

(Cites) della Forestale hanno effettuato 65.779 accertamenti, di cui 64.129 in ambito doganale e 1.650 sul territorio nazionale. Alla Cfs sottolineano che «Tra le principali specie controllate si annoverano tartarughe, pappagalli, primati, felini, boidi e rapaci diurni e notturni. Sono quasi 200 i sequestri effettuati scaturiti dalla contestazione di 70 illeciti penalmente rilevanti e 94 illeciti amministrativi. Il valore della merce sequestrata ammonta a circa 1 milione di euro».

Il convegno è stato che l’occasione per presentare il nuovo calendario 2016 del Servizio Cites del Cfs,  dedicato alle scimmie antropomorfe e i sindacati della Forestale hanno colto l’occasione per mettere in atto una protesta contro il Capo del Corpo forestale dello Stato, Cesare Patrone, che partecipava al convegno insieme  a Tullio Del Sette, Comandante Generale dell’Arma dei Carabinieri dove è destinata a confluire la Forestale dopo il suo scioglimento voluto dal Governo.

Esponenti delle diverse sigle sindacali della Forestale hanno duramente contestato Patrone, considerato uno degli artefici della soppressione del Cfs,  facendolo anche oggetto di un  simbolico lancio di coriandoli e stelle filanti.

I Segretari Generale del SAPAF Marco Moroni, dell’UGL CFS Danilo Scipio, del SNF Andrea Laganà, della CGIL CFS Francesca Fabrizi e del DIRFOR Maurizio Cattoi, sottolineano in unb comunicato congiunto: «Abbiamo deciso di sostituire le uova con i coriandoli solo ed esclusivamente per il rispetto dell’Istituzione che Patrone ancora oggi purtroppo rappresenta, ma la persona, che non gode più di alcuna forma di considerazione da parte del personale, avrebbe meritato ben altre forme di protesta visto tutto il male che sta facendo ai Forestali. La militarizzazione coatta dei dipendenti e delle funzioni di tutela ambientale, oltre a rappresentare una inaccettabile violazione dei diritti costituzionali dei lavoratori, sembra voler ripercorrere un’esperienza vecchia di quasi un secolo, che durò fortunatamente solo pochi anni, che vide l’allora Corpo della regia guardia per la pubblica sicurezza confluire nell’Arma dei Reali Carabinieri».

I sindacati del Cfs ricordano che Patrone è stato nominato addirittura quando ministro delle politiche agricole era ancora Gianni Alemanno e dicono: «Dopo dodici anni di comando, unico caso nelle Forze di Polizia, chiediamo al “rottamatore” Renzi di porre fine a questo mandato, restituendo un minimo di dignità alla figura di capo del Corpo che dovrà accompagnarci in questo difficile quanto epocale momento: sarebbe un gesto di rispetto nei confronti dei Forestali che, nonostante tutto, continuano a garantire la sicurezza ambientale e agroalimentare ai cittadini!»

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Smog, Mal’aria 2016: aria sempre più irrespirabile. 48 città fuorilegge con Pm10 alle stelle

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Malaria0I dati  scientifici di Mal’Aria di città 2016, il dossier annuale di Legambiente sull’inquinamento atmosferico e acustico, confermano che le città italiane sono soffocate e avvolte dallo smog: «Anche il 2015 per l’aria respirata nei centri urbani è stato un anno da “codice rosso”, segnato da un’emergenza smog sempre più cronica. Milano avvolta in una cappa che la fa somigliare a Pechino, la Pianura Padana coperta da un manto di nebbia e smog, la città della Mole dove non si intravedono sullo sfondo le montagne e la vetta del Monviso, o Roma che si risveglia più volte velata da un’insolita foschia sono solo un esempio. Non basta appellarsi all’assenza di vento e pioggia per intere settimane, l’aria diventa sempre più irrespirabile a causa delle elevate concentrazioni delle polveri sottili, dell’ozono e del biossido di azoto che causano, tra l’altro, danni alla salute dei cittadini e all’ambiente circostante».

Ogni anno l’inquinamento dell’aria causa oltre 400.000 morti premature nei paesi dell’Unione Europea. L’ Agenzia Europea dell’ambiente dice che l’Italia ha il record di morti per smog con 59.500 decessi prematuri per il Pm2,5 e  3.300 per l’Ozono e 21.600 per gli NOx nel solo 2012. E Legambiente a notare che queste stime potrebbero crescere esponenzialmente se come valori limite di riferimento per gli inquinanti si prendessero quelli consigliati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità: «in base a questi valori dell’OMS, la percentuale di popolazione in ambiente urbano esposta a concentrazioni di polveri sottili dannose per la salute salirebbe dall’attuale 12% a circa il 90%; per l’Ozono si passerebbe dall’attuale 14-15% al 97-98%.  I danni alla salute della popolazione si traducono in costi economici dovuti alle cure sanitarie, che nella Penisola si stimano tra i 47 e 142 miliardi l’anno (dati riferiti al 2010). Ci sono poi i danni economici legati al mancato rispetto delle norme italiane ed europee sulla qualità dell’aria». Sono due le procedure d’infrazione dell’Ue contro l’Italia, entrambe nella fase di messa in mora. La prima, avviata nel luglio 2014 riguarda la “cattiva applicazione della direttiva 2008/50/CE relativa alla qualità dell'aria ambiente e il superamento dei valori limite di PM10 in Italia”; la seconda, avviata nel maggio 2015 riguarda “l’applicazione della direttiva 2008/50/CE sulla qualità dell'aria ambiente ed in particolare obbligo di rispettare i livelli di biossido di azoto (NO2)”.

Delle 90 città monitorate nel 2015 dalla campagna “PM10 ti tengo d’occhio” del Cigno Verde, ben 48 (il 53%), hanno superato il limite dei 35 giorni di sforamento consentiti di Pm10. Il dossier evidenzia che «Le situazioni più critiche si sono registrate a Frosinone che guida anche quest’anno la classifica dei capoluoghi di provincia dove i giorni di superamento nel 2015 sono stati 115; seguita da Pavia con 114 giorni, Vicenza con 110, Milano con 101 e Torino con 99. Dei 48 capoluoghi fuori legge il 6% (Frosinone, Pavia e Vicenza) ha superato il limite delle 35 giornate più del triplo delle volte, andando oltre i 105 giorni totali; il 33% lo ha superato di almeno due volte e il 25% ha superato il limite legale una volta e mezza».

La regione che soffre di più lo smog è il Veneto con il 92% delle centraline urbane monitorate che ha superato il limite dei 35 giorni consentiti; (in particolare quelle di Padova, Rovigo, Treviso, Venezia, Verona e Vicenza), in Lombardia l’84% delle centraline urbane (tutte quelle di Milano, Bergamo, Brescia, Cremona, Lodi, Mantova, Pavia, Como e Monza), in Piemonte l’82% delle stazioni di città (en plein per le centraline di Alessandria, Asti, Novara, Torino e Vercelli), il 75% delle centraline sia in Emilia-Romagna (Ferrara, Modena, Piacenza, Parma, Ravenna e Rimini) sia in Campania (Avellino, Benevento, Caserta e Salerno).

Per quanto riguarda gli altri inquinanti, PM2,5, ozono troposferico, e ossidi di Azoto, il bilancio è relativo al 2014: «Per il PM2,5 i capoluoghi di provincia Monza, Milano e Cremona hanno superato il limite del valore obiettivo di 25 µg/m3 di PM2,5 (erano 11 le città nel 2013 e 15 nel 2012). Dati poco rassicuranti riguardano invece dall’Ozono: un terzo dei capoluoghi di provincia monitorati (28 su 86) ha superato il limite dei 25 giorni (dati 2014). Prime in classifica Genova e Rimini con 64 giorni di superamento, seguono Bologna (50), Mantova (49) e Siracusa (48). Particolarmente critica la situazione nell’area padana per le elevate concentrazioni di questo inquinante. Per gli ossidi di Azoto, sempre nel 2014, sono 11 i capoluoghi di provincia sui 93 monitorati (il 12%) che hanno superato il limite normativo (La Spezia, Torino, Roma, Milano, Trieste, Palermo, Como, Bologna, Napoli, Salerno, Novara)».

L’emergenza smog 2015, che nel mese di dicembre è stata al centro di una forte attenzione mediatica, non è stata di certo un fulmine a ciel sereno. Nel dossier Legambiente evidenzia come il superamento del Pm10 sia avvenuto già all’inizio del 2015: ad esempio Frosinone scalo, prima in classifica nel 2015, ha raggiunto il limite del 35° giorno di superamento il 16 febbraio scorso, Pavia e Torino, rispettivamente seconda e quinta in classifica, il 22 e il 27 febbraio e Milano il 10 marzo. Dati che lasciano pochi dubbi su come sia stata mal gestita fino ad oggi l’emergenza smog.

Confrontando poi i dati del 2015 con quelli raccolti da Legambiente negli ultimi anni, emerge che «Per il Pm10 il numero di città che ha superato il limite dei 35 giorni di sforamento consentiti (48 nel 2015) è in linea con la media del numero di città fuorilegge degli ultimi sette anni (48 di media dal 2009 ad oggi). Inoltre le città coinvolte sono quasi sempre le stesse: ben 66 infatti compaiono almeno una volta nella classifica dei capoluoghi che hanno superato i 35 giorni ammessi e di queste ben 27 (il 41%) lo ha fatto sistematicamente 7 anni su 7».

Ma se l’aria è sempre più irrespirabile, le cittàò italiane sono anche sempre più rumorose. Mal’aria ricorda che secindo l’OMS in Italia quasi  6 milioni di cittadini  (il 10% della popolazione) «sono  esposti, negli ambiti considerati, al rumore prodotto dal traffico stradale a livelli giornalieri inaccettabili»  Invece, le persone esposte ad elevati livelli di inquinamento acustico durante la notte sono quasi 5 milioni. «La risposta a questa situazione è però ancora del tutto insufficiente – dice il Cigno Verde - Non per nulla l’Italia è in procedura d’infrazione, in stato di messa in mora, per il mancato rispetto della normativa comunitaria relativa ai livelli di inquinamento acustico, la Direttiva 2002/49/CE».

La presidente nazionale di Legambiente, Rossella Muroni, è convinta che «L’emergenza smog difficilmente si potrà risolvere con interventi sporadici che di solito le amministrazioni propongono in fase d’emergenza tra targhe alterne, blocchi del traffico, mezzi pubblici gratis, come avviene attualmente in gran parte delle città italiane, e senza nessuna politica concreta e lungimirante. Per uscire dalla morsa dell'inquinamento è fondamentale che il Governo assuma un ruolo guida facendo scelte e interventi coraggiosi, mettendo al centro le aree urbane e la mobilità sostenibile, impegnandosi per approvare a livello europeo, normative stringenti e vincolanti, abbandonando una volta per tutte le fonti fossili e replicando quelle esperienze anti-smog virtuose messe già in atto in molti comuni italiani in termini di mobilità sostenibile, efficienza energetica e verde urbano».

Ma la Muroni è anche convinta che «Il protocollo firmato lo scorso 30 dicembre tra ministero dell’ambiente, rappresentanti di comuni e regioni, non è stato all’altezza del problema e il rischio è che si rincorra sempre l’emergenza senza arrivare a risultati concreti e di lunga durata. Per questo è urgente e indispensabile che l’Italia adotti un piano nazionale per la mobilità urbana, dotato di risorse economiche, obiettivi misurabili e declinabili. La priorità deve essere la realizzazione di nuove linee metropolitane e di tram, a cui devono essere vincolate da subito almeno il 50% delle risorse per le infrastrutture, da destinare alle città, dove si svolge la sfida più importante in termini di rigenerazione urbana e di vivibilità».

Secondo Legambiente, «Per contrastare in maniera efficace l’inquinamento atmosferico, è indispensabile un cambio di passo nelle politiche della mobilità sostenibile, potenziando il trasporto sul ferro, l’uso dei mezzi pubblici e la mobilità nuova, e rendere così le auto l’ultima delle soluzioni possibili per gli spostamenti dei cittadini. Oggi l’Italia continua ad avere il record per numero di auto per abitante: il tasso di motorizzazione arriva a 62 auto ogni 100 abitanti della città di Roma o ai 67 di Catania, contro le 25 auto ogni 100 abitanti di Amsterdam e Parigi o le 31 di Londra. E’ perciò indispensabile una strategia nazionale per la qualità dell’aria e un piano per la mobilità in città, accompagnato da studi accurati sulle fonti di emissione, eseguiti a scala locale e urbana, per pianificare le giuste politiche di intervento».

L’associazione ambientalista avanza alcune proposte a a Governo, Regioni e amministrazioni locali, per liberare le città dallo smog e renderle più vivibil: incrementare il trasporto su ferro con 1000 treni per i pendolari; incentivare la mobilità sostenibile attraverso,100 strade per la ciclabilità urbana, realizzando un primo pacchetto di nuove corsie ciclabili all’interno dell’area urbana. Limitare la circolazione in ambito urbano dei veicoli più inquinanti (auto e camion) sul modello di Parigi. Prevedere, con una disposizione nazionale, l’estensione del modello dell’Area C milanese a tutte le grandi città con una differente politica tariffaria sulla sosta, i cui ricavi siano interamente vincolati all’efficientamento del trasporto pubblico locale. Fermare i sussidi all’autotrasporto per migliorare il TPL. (Nella legge di stabilità 2016 i sussidi all'autotrasporto sono 3miliardi di esonero sull’accisa e 250milioni di sconti su pedaggi autostradali). Vietare l’uso di combustibili fossili, con esclusione del metano, nel riscaldamento degli edifici a partire dalla prossima stagione di riscaldamento. Ridurre l’inquinamento industriale applicando autorizzazioni integrate ambientali (AIA) stringenti e rendere il sistema del controllo pubblico più efficace con l’approvazione della legge sul sistema delle Agenzie regionali protezione ambiente ferma al Senato da oltre un anno. Infine servono nuovi controlli sulle emissioni reali delle auto.

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Multa da 2.000 euro al comandante del peschereccio che pescava a Montecristo

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Montecristo peschereccioIl Parco Nazionale dell’Arcipelago Toscano rende noto che «Il tribunale di Livorno  ha  condannato il comandante  del peschereccio che pescava a strascico a Montecristo a 2.000 euro di ammenda oltre al pagamento delle spese processuali».

L’8 di maggio del 2014 intorno alle 11,30, durante un controllo a mare all’interno delle aree protette del Parco Nazionale dell’Arcipelago Toscano, effettuato con l’utilizzo dell’elicottero del Corpo Forestale dello Stato AB 412, il personale del Cfs colse in flagranza di reato un peschereccio di 16 metri che pescava a strascico a  Montecristo. L’imbarcazione proveniente da porto S. Stefano (GR) fu avvistata nelle acque di fronte alla costa est dell’Isola, quello rivolto verso l’Isola del Giglio, dalla parte opposta all’approdo di Cala Maestra.

Il Coordinamento Territoriale per l’Ambiente (CTA) del Corpo Forestale dello Stato, ha potuto così ndividuare il mezzo e di fotografarlo per la identificazione in piena attività di pesca all’interno delle 3 miglia dall’Isola di Montecristo e quindi in area protetta integrale, dove vige il divieto assoluto di pesca. Quindi il Cfs denunciò il comandante del peschereccio, per la violazione dell’art. 19, comma 3, della Legge 394 del 1991 che prevede la pena dell’arresto fino a 6 mesi o l’ammenda fino a 12.911 euro, contestando inoltre la violazione dell’art. 10, comma 1, del D. Lvo 4 del 2012 che prevede una sanzione amministrativa pecuniaria da 2.000 a 12.000 euro.

Il parco sottolinea che è stata «Pienamente dimostrata  la responsabilità dell’imputato. Dalla documentazione  acquisita e dalle testimonianze il peschereccio svolgeva attività di pesca a traino con le reti tirate dentro l’area del Parco Nazionale Arcipelago Toscano dove vige il divieto di pesca».

Il presidente del Parco Nazionale e di Federparchi,  Giampiero Sammuri evidenzia che «La combinazione tra  la tecnologia e la disponibilità dell’elicottero della Forestale  sono un ausilio importante per la sorveglianza del Parco.  Un ringraziamento al Corpo Forestale per la efficienza e professionalità espressa nei compiti istituzionali di sorveglianza e tutela delle aree protette».

Legambiente Arcipelago Toscano si complimenta con il Corpo forestale dello Stato e il Parco nazionale  «ma rileva con amarezza che per un reato gravissimo, la pesca illegale a strascico in un’area marina protetta integralmente e addirittura probabilmente a una distanza proibita dalle stesse leggi ordinarie sulla pesca, al comandate del peschereccio pirata è stato comminato solo il minimo della sanzione pecuniaria. Un’inezia rispetto ai guadagni che i pirati del mare riescono a fare con una sola calata nelle acque integralmente protette di Montecristo o Pianosa».

Per aggravare ulteriormente la cosa, i bracconieri erano all’opera davanti ad un’isola insignita con Diploma europeo per la protezione dell’ambiente e in un mare integralmente protetto che l’Unione europea ha dichiarato Zona di protezione speciale, una delle poche ancora presenti in Italia.

«In altri Paesi – dice Legambiente – per il saccheggio del mare protetto le pene sono molto più dure, a cominciare dal sequestro dell’imbarcazione e dalla revoca della licenza di pesca. Fino a che, con le leggi esistenti,  si potrà procedere quasi impuniti al saccheggio del mare nessuno fermerà davvero i bracconieri della nostra bellezza e della nostra biodiversità e e così anche la preziosa attività delle forze dell’ordine e i costosi mezzi tecnologici di controllo messi in atto dal Parco rischiano di risultare inefficaci.  Inoltre, episodi come questi evidenziano quanto sia prezioso il ruolo svolto dal Corpo forestale dello Stato che il Governo ha deciso di eliminare e di accorpare ai Carabinieri. Ci chiediamo cosa ne sarà di Montecristo, Riserva dello Stato gestita e sorvegliata dalla Forestale. I bracconieri staranno certamente brindando e preparando altre reti a strascico per saccheggiarla a basso rischio e a basso costo».

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Acque reflue urbane, il Portogallo condannato dalla Corte Ue

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acque_reflueIl Portogallo è condannato dalla Corte di Giustizia europea per non aver garantito la raccolta e il trattamento delle acque reflue urbane di 44 piccoli agglomerati.  Lo Stato - così come ha anche affermato in precedenza l’avvocato generale dell’Ue Pedro Cruz Villalón - è venuto meno agli obblighi a esso incombenti in forza della direttiva sul trattamento delle acque reflue urbane (91/271).

Secondo la Commissione la Repubblica portoghese è venuta meno agli obblighi a essa incombenti per quanto riguarda il trattamento delle acque reflue urbane in una serie di agglomerati. Lo Stato doveva, dopo il 1° gennaio 2006, garantire un trattamento secondario o un trattamento equivalente per gli scarichi delle acque reflue urbane provenienti da tali agglomerati, nel rispetto dei valori della direttiva. E avrebbe dovuto fornire alla Commissione i risultati delle misure di sorveglianza. Ma non ha fatto niente di tutto questo. Non adempiendo ai suoi obblighi ha invece messo in pericolo l’ambiente. E ciò non può essere giustificato neanche dalle difficoltà finanziarie avvallate dallo Stato.

La direttiva sul trattamento delle acque ha lo scopo di proteggere l’ambiente dalle ripercussioni negative provocate dagli scarichi di acque reflue. Si propone oltre di preservare gli ecosistemi acquatici, anche di preservare l’uomo, la fauna, la flora, il suolo, l’acqua, l’aria e il paesaggio da qualsiasi incidenza negativa rilevante connessa alla proliferazione di alghe e di forme superiori di vita vegetale cagionata dagli scarichi di acque reflue urbane.

Quindi impone agli Stati membri di provvedere affinché, nei termini indicati, gli agglomerati interessati sottopongano le acque reflue urbane, che confluiscono nelle reti fognarie di cui sono dotati gli agglomerati a un trattamento adeguato e affinché gli scarichi soddisfino i requisiti. Tale obbligo, però, non implica che, per poter validamente accertare che gli impianti di cui trattasi siano conformi alle prescrizioni i prelievi di campioni –in particolare quelli previsti all’allegato I, sezione D, della direttiva - si estendano su un intero anno.

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Incredibile ma vero: la gara internazionale di motocross nel Parco a Bacoli non era autorizzata

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motocross BacoliSulla spiaggia di Miseno-Miliscola a Bacoli, in Campania,  il 24 gennaio si sono tenuti i Campionati Internazionali D’Italia Supermarecross e diversi ambientalisti e ricercatori si sono chiesti come fosse possibile che una manifestazione di questo tipo, che ha comportato anche la realizzazione di un tracciato di gara,  si potesse tenere all’interno del Parco Regionale dei Campi Flegrei che, come si legge sul sito di Federparchi, «protegge un'area vulcanica attiva, del territorio della Campania, in continua evoluzione. Ciò ha determinato, nel corso dei secoli e nell'interazione con gli insediamenti umani, il formarsi di una incredibile varietà di valori, materiali e immateriali, unici al mondo, compresenti, in maniera inscindibile, in una porzione di territorio di limitata estensione».

Anche perché, dice sempre Federparchi «Il Parco dei Campi Flegrei punta alla riconversione dell'attuale, inadeguato, modello di sviluppo territoriale, attraverso la valorizzazione e protezione della biodiversità e attraverso la realizzazione di un modello di sviluppo sostenibile, duraturo, e destagionalizzato, basato sulla valorizzazione dell'imponente Patrimonio Archeologico, Paesaggistico, Naturalistico, Storico e Termale inespresso».

Inoltre, come ricorda Stefano Erbaggio sul  giornale online L’Inziativa, la spiaggia di Miseno-Miliscola dove hanno sfrecciato le moto fa parte del di un Sito di Importanza Comunitaria (Sic) compreso per la metà nel perimetro del Parco Regionale dei Campi Flegrei, «a cui compete quindi la gestione secondo le disposizioni in materia di conservazione e gestione dei siti della Rete Natura 2000 approvate dalla Regione Campania».

Una gara di motocross non ha certo nulla a che vedere con tutto questo, ma la cosa più sorprendente è stata la risposta che ha dato agli ambientalisti e alla stampa Gennaro Carotenuto, il commissario del Parco regionale dei Campi Flegrei: «Al Parco non è stata prodotta alcuna formale richiesta di parere di competenza». Quindi la rombante manifestazione  Supermarecross  si sarebbe svolta senza la principale e più essenziale delle autorizzazioni: quella del Parco, ma anche senza che nessuno intervenisse per farlo presente e bloccare tutto.  Forse perché, come scrivevano il 20 gennaio in un comunicato gli organizzatori: «A patrocinare la gara, – fortemente voluta soprattutto dal Sindaco Josi Gerardo Della Ragione, dal Vicesindaco e Assessore allo Sport Marco di Meo, e dai Consiglieri Domenico Mazzella e Alessandro Radice, – è il Comune di Bacoli, con l’ausilio delle forze dell’ordine: Polizia municipale, Carabinieri e Guardia Costiera garantiranno la sicurezza su tutto il territorio durante le gare, in vista del grosso flusso di partecipanti attesi».  Insomma, tutti hanno proceduto come se il Parco non esistesse.

Eppure, come spiega su L’Inziativa Carlo Donadio, del Dipartimento di scienze della terra, dell’ambiente e delle risorse dell’università Federico II di Napoli, «La zona  è già soggetta ad erosione dalla seconda metà degli anni ’60, ed in quel periodo vennero poste le attuali scogliere per stabilizzare il fenomeno. Interventi di movimentazione della sabbia che cambiano il profilo morfologico della spiaggia possono causare un’accelerazione dei processi erosivi, specialmente se tali interventi sono effettuati in prossimità del mare. Ripristinare lo stato della spiaggia  riduce il rischio ma non lo elimina».

Quindi, la gara di motocross non autorizzata è intervenuta su un sito già a rischio e da tutelare e non solo dal punto di vista geologico. Rosario Balestrieri, ornitologo del Cnr e presidente dell’associazione dell’Associazione per la ricerca la divulgazione e l’educazione ambientale (Ardea) sottolinea che «Gli aspetti spiacevoli della vicenda sono due: innanzitutto, le spiagge sono ambienti estremamente delicati e sono soggetti a tutela e quella di Miseno è compresa in un Sic, per il quale sono predisposti piani di gestione e valutazione di incidenza; l’altro punto cruciale è che in un area così fortemente vocata al turismo ed alla natura, siano previste poche attività che utilizzano la risorsa “natura” in favore di altre, a grande impatto ambientale, adatte a zone con un altro tipo di vocazione. Questo tipo di manifestazioni sono causa di sconforto, visto che da anni le amministrazioni e le realtà locali avrebbero dovuto gettare le basi per un’economia del turismo diversa. Viene da pensare che il Parco non sia minimamente percepito. Per quanto riguarda invece la presenza di specie o habitat importanti in quell’area,  ho avuto la percezione che se la spiaggia non sia sfrutta dall’uomo venga considerata abbandonata e quindi degradata. Sul litorale dei Campi Flegrei si continua a rimaneggiare sabbia ed a pulirla di tutti i semi della macchia mediterranea, questa formazione vegetale così preziosa, che ci dovrebbe essere, non ci sarà mai. Quindi, se impediamo la formazione di dune, è impensabile che quella spiaggia venga colonizzata da specie rare, come il Fratino. In ogni caso, su quella spiaggia sono segnalate due coppie territoriali di Corriere piccolo».

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Inquinamento atmosferico, Mal’aria in Toscana: i dati regionali

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Malaria ToscanaDalla presentazione della parte toscana del dossier di Legambiente Mal’Aria 2016 è emerso che «Il 2015 si è concluso all'insegna dell'emergenza smog. La maggior parte delle città toscane si è "svegliata" ancora una volta, verso la metà di dicembre, con le centraline di fondo urbano e di traffico che registravano, quasi ininterrottamente, per due settimane, sforamenti del PM10 sopra il valore limite di 50 microgrammi per mc. Un limite che per legge non può essere superato più di 35 volte in un anno (D.lgs. 155/2010)».

Secondo Fausto Ferruzza, presidente di Legambiente Toscana, «La situazione media è decisamente migliorata e non possiamo che esserne felici. Tuttavia proprio oggi che commentiamo dati tutto sommato lusinghieri, non possiamo dimenticare l’emergenza smog di dicembre. Tanti giorni consecutivi di alta pressione, di nebbia e di assenza totale di vento hanno creato solo poche settimane fa un cocktail micidiale da allarme sanitario. Il piano per prevenire la Mal’aria in città è noto: 1) cura del ferro nei trasporti pubblici locali, più reti ciclabili, più pedonalizzazioni nei nostri centri antichi; 2) riscaldamento domestico a più alto tasso d’innovazione (pompe di calore, caldaie a condensazione, etc.); 3) nelle attività industriali applicazione rigorosa del principio europeo del chi inquina paga, in vista di una progressiva riduzione dell’intensità emissiva delle nostre attività produttive».

Ecco cosa dice il dossier Mal’aria 2016 sui dati della Toscana:

A far scattare l’emergenza smog durante i mesi invernali sono sempre le polveri fini, ovvero il PM10 e il PM2.5. Il particolato atmosferico è da molti anni ormai considerato tra gli inquinanti di maggior impatto sulla salute delle persone, per via delle sue “capacità” di essere facilmente inalato dall’apparato respiratorio e per le alte concentrazioni che si registrano specialmente in ambiente urbano.

Le situazioni più critiche per il PM10 in Toscana si sono registrate a Lucca (centralina Micheletto) al 33° posto nella classifica nazionale con 52 giorni di superamento e Prato (42°) nella centralina di via Roma con 40 sforamenti. Grazie ai dati raccolti negli anni da Legambiente con la campagna “PM10  ti tengo d’occhio”, si è potuto risalire a quali città soffrono cronicamente del problema di inquinamento atmosferico derivante dalle polveri sottili. Confrontando il periodo  dal  2009  al  2015, emerge  che nei sette anni le città coinvolte siano prevalentemente sempre le stesse anche in Toscana: Prato 6 anni su 7, Firenze e Lucca 5 su 7, invece 2 anni su 7 Pisa e Pistoia.

Per quanto riguarda i dati del particolato fine (PM2.5) , con l’entrata in vigore del D.Lgs. 155/2010, che recepisce la Direttiva Europea 2008/50/CE, erano stati fissati dei limiti di anno in anno sempre più stringenti, indicanti come valore obiettivo 25 μg/m3 come media annuale da non superare, entrato in vigore dal 1 gennaio 2015. «Va evidenziato – dicono a Legambiente - come tale valore previsto dalla normativa europea sia ampiamente superiore a quanto previsto invece dalle raccomandazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che, considerato il PM2,5 come il particolato atmosferico maggiormente rischioso per la salute dell’uomo, fissa a 10 μg/mc la media annuale da non superare. Se prendessimo, infatti, il valore dell’OMS come riferimento, la classifica dei capoluoghi toscani vedrebbe Prato (via Roma) con una media di 17 μg/m3 (valore medio annuo 2014) e Firenze (centralina Gramsci) con 16 μg/m3, Arezzo e Pisa con 14 μg/m3».

Secondo Mal'aria 2016 c’è stato un miglioramento anche nella classifica dell'ozono troposferico (O3), un gas fortemente ossidante e tossico se inalato in grandi quantità per le vie aeree, gli occhi, responsabile di diverse patologie cardio-respiratorie. Quasi tutte le città toscane sono a metà e fine classifica  in quanto non sono stati superati i limiti previsti dalla normativa (D.Lgs. 155 del 2010) per le emissioni di ozono troposferico che consentono un massimo di 25 giorni di superamento della soglia giornaliera pari a 120 µg/m3 mediata su 8 ore consecutive.

Il biossido di azoto (NO2) è un gas particolarmente irritante, conosciuto per essere uno tra i maggiori inquinanti, che è prodotto  dai processi di combustione e, specialmente nei centri urbani, dal traffico automobilistico e dal riscaldamento domestico e la media dei valori annuali di NO2 a Firenze mostrano un notevole miglioramento per il capoluogo regionale, che negli anni passati vantava un negativo primato nazionale. Quest'anno Firenze  scende nella classifica al 16° posto con 38,5 µg/m3, nel 2012 era al primo con 59,7 µg/m3. Le altre città toscane, per la maggior parte, si trovano a metà classifica. Ma, nonostante questo miglioramento, Legambiente evidenzia che «alcune città hanno registrato annualmente una media superiore al limite normativo dal 2006 a oggi e molti altri capoluoghi di provincia si allontanano solo di poco da questo record negativo. Prendendo in considerazione dati storici dal 2006 al 2014, si nota come Firenze su 9 anni supera il limite da 7 a 9 annimentre Siena e Pisa da 1 a 3 anni».

 

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Monaco 2040, obiettivo 100% rinnovabili grazie alla geotermia

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monacoEntro il 2040, Monaco sarà la prima grande città tedesca alimentata 100% da fonti rinnovabili. Il contributo principale per raggiungere questo ambizioso obiettivo verrà dall'energia geotermica. La realizzazione di questa visione è stata affidata alla multiutiliy cittadina SWM che ha anche iniziato recentemente la perforazione per un impianto geotermico in Freiham. Ora arriva il secondo passo: al fine di trovare luoghi adatti per ulteriori impianti, è iniziata una vasta campagna di misurazione nel capoluogo bavarese attraverso l'uso di particolari mezzi che -inviando vibrazioni all'interno del terreno- sono in grado di segnalare l'eventuale presenza di bacini acquiferi e/o geotermici.

I lavori sono stati appaltati alla DMT GmbH & Co. KG con sede a Essen, i cui mezzi in azione e informazioni sul progetto sono visibili in questo video (in tedesco).

Sotto Monaco di Baviera c’è un’enorme risorsa di acqua calda e il cui calore può essere utilizzato per il teleriscaldamento urbano. Nella parte meridionale della città si trovano depositi di acqua termale con temperature che vanno dagli 80 ai 100 gradi Celsius a una profondità di 2.200 metri (ad ovest) e 3.200 metri (a est). La campagna di misurazione ed estensione del bacino di ricerca di SWM durerà almeno fino a marzo 2016.

L'indagine (che darà origine ad un modello 3D ) è parte del progetto di ricerca GRAME, finanziato dal Ministero Federale dell'Economia e dell'Energia (BMWi). Partner della SWM sono l'Istituto Leibniz per la Geofisica Applicata LIAG, l'ufficio pianificazione Erdwerk GmbH, l'Istituto di Sistemi Energetici e geofisica dell'Università Tecnica di Monaco GGL e la Ingegneria geotecnica Leipzig GmbH.

Sempre a Monaco, ma a circa 4200 metri di profondità, sono già stati trovati e messi a frutto bacini con temperature oltre 140 gradi Celsius. Ciò ha consentito l'utilizzo del bacino geotermico, oltre che per la produzione di calore per il teleriscaldamento, anche per generare elettricità. La centrale Sauerlach, ad esempio, dal 2013 produce energia elettrica per 16.000 famiglie e allo stesso tempo fornisce il riscaldamento all’intero quartiere.

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Dieci anni di greenreport, e un sasso nello stagno che rimbalza nel futuro

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logo greenreportEsattamente dieci anni fa, quando nel gennaio 2006 vide la luce il primo numero di greenreport, il mondo cui s’affacciava era molto diverso da quello di oggi. Internet poteva dirsi ancora una realtà di nicchia, in Italia: solo il 14,4% della popolazione godeva di una connessione a banda larga per navigare, contro il 63% e passa di oggi. Facebook, Twitter e gli altri social network che oggi sono una costante nella vita dell’italiano moderno, nel 2006 erano solo deboli echi provenienti da oltre oceano. Si sarebbero avvicinati di gran corsa, insieme agli effetti della crisi economica che stava già detonando negli Usa.

In quel mondo, lanciare online un quotidiano “perché l’ambiente non è solo emozione” – questo era allora il motto di greenreport, e ancora oggi ne è una bussola –, era un po’ come lanciare un sasso nello stagno. Scagliato da Livorno, nella provincia dell’impero, grazie allo sforzo visionario dell’editrice Eco srl e del suo direttore Valerio Caramassi. In dieci anni, le onde concentriche suscitate a pelo d’acqua da quel lancio coraggioso fatto dal nostro primo e compianto direttore, Luciano De Majo, ne hanno fatta di strada. Greenreport ha combattuto battaglie, avviato collaborazioni prestigiose, dato vita a un proprio think tank. Ha incontrato molti amici e affezionati lettori, come anche la stizza di quanti – tanti – proprio non sopportano una lettura complessa di un macrotema che si vorrebbe rendere semplice, bidimensionale: l’ambiente.

Un approccio che in questi anni non ha smesso di guadagnare terreno, complice anche la marea montante di informazioni che nel mentre ha allagato il campo del dibattito, non sempre arrecando benefici. C’è chi ha provato a calcolare la quantità di informazioni con la quale noi moderni siamo bombardati ogni giorno. Nel 2013, risultò che il 90% di tutti i dati presenti nel mondo erano stati prodotti dall’homo sapiens sapiens solo negli ultimi due anni. Una tendenza ragionevolmente in progressione, portata sempre più in alto dalla pervasività della tecnologia (Internet in testa). Questo trend apparentemente inarrestabile ha portato con sé un gran numero di vantaggi, ma anche allargato qualche falla nella nostra capacità di comprendere davvero cosa ci accade attorno: dal rischio della poca informazione, lo sappiamo, siamo passati al suo opposto. Per dirla col sarcasmo di Umberto Eco, «ho sempre sostenuto che c’era poca differenza fra la Pravda stalinista e l’edizione domenicale del New York Times: la Pravda censurava le informazioni indesiderate, il Sunday Times invece conta ben 600 pagine, che sicuramente contengono All the news that’s fit to print, tutte le notizie che vale la pena stampare, ma che con altrettanta sicurezza nessuno riuscirà a leggere per intero, neppure nell’arco di una settimana. Rischiamo di restare sommersi da un eccesso di informazioni, e la differenza fra il silenzio e il troppo rumore è davvero minima».

In tale «eccesso di informazioni», anche ambientali, che pure nel nostro piccolo continuiamo ad alimentare, qual è la ragione dell’esistenza di questo giornale? Negli anni, il punto d’osservazione con cui greenreport non ha smesso di indagare il mondo in movimento è sempre stato quello della difesa dell’ambiente, del progresso e della giustizia. Della concreta difesa dell’ambiente, e non dell’ambientalismo spettacolo; rifuggendo le verità assolute, il bianco dell’ideologia purista e il nero delle “bombe ecologiche”, e inerpicandosi faticosamente in quella scala di grigi che ci circonda in questo mondo terribile, complicato e meraviglioso. Fra il fare nulla (e quindi l'abusivismo) e il fare male (e quindi l'associazione a delinquere), crediamo ancora che la strada del progresso umano che torna ad essere sostenibile – socialmente e ambientalmente – sia davvero percorribile, e non solo a parole.  Che sia la vera resilienza l’unica speranza di riportare un equilibrio tra l’uomo e il pianeta che lo ospita, quello che viene chiamato, non sempre a proposito, sviluppo sostenibile.

Ma che cosa vuol dire, sviluppo sostenibile? Andando al di là delle definizioni classiche, nel lontano 2001 – un lustro prima della nascita di greenreport, dunque – il ministero dell’Ambiente definiva la sua “Strategia nazionale ambientale per uno sviluppo sostenibile”. Una strategia che aveva tra gli obiettivi principe quello della «riduzione dell’ingresso di materiali nel sistema socio-economico (mondiale, nazionale, regionale, industriale, urbano, familiare) mantenendo gli attuali livelli di qualità della vita ed anzi puntando a migliorare gli aspetti legati proprio all’eccessivo e distorto consumo di beni materiali ed a modelli di vita inutilmente dispendiosi». Hic Rhodus hic salta, si sarebbe detto una volta. Ma si è preferito non fare niente, e in questa confusione (politica, giuridica, normativa, informativa, ecc) l’ambiente non ha da che rimetterci; insieme a tutti noi, in definitiva.

Una prospettiva cui ancora non sappiamo, e non vogliamo, rassegnarci.

Sappiamo che le buone idee prendono forma e diventano consapevolezza, movimento e carica di cambiamento. E quando il cambiamento finalmente sboccerà, noi e i nostri lettori potremo dire: ci siamo stati. Per questo greenreport è diventato il primo – e ancora oggi l’unico – quotidiano italiano per un’economia ecologica.

La redazione

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Miniere di metalli sempre meno produttive, bisognerà attingere ai “depositi” antropici

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miniereLo studio “Global patterns of metal extractivism, 1950–2010: Providing the bones for the industrial society's skeleton”, pubblicato su Ecological Economics da Anke Schaffartzik , Andreas Mayer, Nina Eisenmenger e Fridolin Krausmann dell’Institut für Soziale Ökologie dell’Alpen-Adria Universität austriaca, sottolinea che «Le attività minerarie  hanno un potenziale impatto sociale e ambientale elevato e l’aumento dell’estrazione e  dell’utilizzo dei  metalli è probabile che alimenterà conflitti socio-ambientali».

I 4 ricercatori fanno parte del team viennese di Environmental Justice organizations, Liabilities and Trade (Ejolt)  e quella che hanno pubblicato è «La  prima analisi quantitativa globale dei flussi dei metalli, che fornisce approfondimenti sui modelli e le potenziali conseguenze del (neo)estrattivismo per quanto riguarda i metalli».  Ejolt sottolinea che «Tale analisi permette anche ad  attivisti, ricercatori, e popolazioni locali che stanno lottando contro gli  impatti negativi dalle attività estrattive di vedere i modelli simili dei drivers  e delle pressioni in altri casi. La combinazione delle conoscenze provenienti da studi locali e globali migliorerà la comprensione del potenziale risultante del conflitto e dai precursori per il cambiamento necessario».

I ricercatori austriaci ricordano che «Durante la seconda metà del  XX secolo, l'estrazione mineraria si è espansa a livello globale e deve essere considerata una delle forme dominanti di intervento umano sull’'ambiente. I metalli sono  risorse di importanza strategica per le società industrializzate e per l’industrializzazione».

Una ulteriore svolta c’è stata nel  2010, quando i 5 Paesi BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa) hanno consumato il 54% dei metalli estratti a livello globale.

Lo studio evidenzia che «L'analisi dei dati di flusso di materia offre una prospettiva biofisica sulle miniere come una frontiera delle risorse e consente l'identificazione di modelli nell’estrazione globale e nel  commercio di metalli».

Dal 1950, l'estrazione dei metalli si è estesa dai Paesi industrializzati alle  economie emergenti. Nel 2010, solo il 6% dei metalli veniva estratto in Europa o Nord America, mentre ben il 76% veniva estratto in soli 4 Paesi: Australia, Cina, India e Brasile.

Lo studio spiega che «Nei paesi che ospitano operazioni minerarie su vasta scala, la pressione socio-ecologica segue comunemente il cosiddetto percorso di sviluppo estrattivista . Gli alti livelli di esaurimento  dei depositi di metalli significano che in futuro gli odierni estrattori ed esportatori di metalli potranno dipendere dalle importazioni di metallo provenienti da depositi di origine antropica (stocks  in edifici, infrastrutture e prodotti durevoli)».  Vista così sarebbe la realizzazione dell’economia circolare, che fa di necessità (la fine delle risorse estraibili o la difficoltà di accedervi) virtù.

Ma il team dell’Alpen-Adria Universität «Il percorso estrattivista e il passaggio dai metalli naturali ai depositi di origine antropica sono entrambi associati ad un potenziale di conflitto».

Quindi l’esaurimento del di risorse che hanno costituito prima l’ossatura della rivoluzione industriale e poi lo scheletro portante della società dell’iper-consumo (occidentale) potrebbero non portarci ad un parsimonioso uso delle risorse basato sul riciclo e riuso, ma ad una lotta per i “depositi antropici” che lo sviluppo distorto ha creato. Con una nuova lotta per le risorse senza progresso, che ricorderebbe gli scenari di certi film di fantascienza catastrofica.

In un mondo dove l’ineguaglianza è sempre più ampia e nel quale l’umanità “ricca” sembra aver perso ogni contatto con l’economia reale e le fonti di produzione dei beni di consumo, il rischio è reale e quindi la giustizia sociale è sempre più strettamente legata ad un’ equa distribuzione delle risorse sempre più scarse. Un dilemma al quale l’umanità dovrà rispondere non tra mille anni, ma molto più presto di quel che credeva. Ce lo dicono gli scricchiolii che ricercatori come quelli dell’Ejolt sentono nelle ossa e nello scheletro di metallo della nostra società dei consumi e nelle miniere dei Paesi del mondo nelle quali la alimentiamo.

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Rimateria si presenta in Consiglio comunale: a Piombino l’economia circolare ricomincia da qui

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valerio caramassi asiu tapOttocento ettari di aree da bonificare (più di 2 milioni di tonnellate di rifiuti sopra terra) e un territorio intero, quello della Val di Cornia, da rilanciare: il progetto Rimateria ha un ruolo centrale in questa prospettiva, e ha fatto oggi il suo ingresso nel Consiglio comunale di Piombino per una discussione trasparente in merito alle prospettive di sviluppo. Il presidente Valerio Caramassi ha illustrato tempi e modi per concretizzare ciò che si attende da lustri: il riciclo, l’inertizzazione e lo smaltimento in condizioni di sicurezza (di quella parte che non è riciclabile) dei rifiuti speciali e pericolosi che già oggi – e da molti anni – sono presenti sul territorio.

Una presenza assai ingombrante, ma che generalmente si preferisce ignorare. Esempi di quei “rifiuti pericolosi” che tanto allarmano al solo sentirli nominare sono presenti nella case di tutti: lavatrici e frigoriferi, solventi, insetticidi, olii, vernici, detergenti, farmaci, pile, legno trattato, solo per elencarne alcuni. L’ancor più temuto amianto lo si ritrova in assi da stiro e asciugacapelli, telecomandi, termos; è nelle scuole (2.400 in Italia, secondo l’Ona) che frequentano i nostri figli, nei traghetti come negli autobus che usiamo per spostarci.

Ingenti quantità di materiali di pericolosi sono smaltiti abusivamente in discariche illegali sparse per fossi e campagne. Non visti o peggio ignorati, non fanno paura quando dovrebbero. Al contrario, quando finalmente diventano oggetto di attenzione per essere smaltiti in sicurezza, si grida alla bomba ecologica. Il tentativo di Rimateria è quello di superare questo paradosso, con un’operazione di pragmatica green economy: la società ha per oggetto la bonifica delle aree industriali e dei siti contaminati. Per farlo – è stato precisato in Consiglio comunale – non sarà creato nessun nuovo sito di discarica: in programma c’è invece una bonifica e una riqualificazione ambientale e paesaggistica delle discariche già presenti sul territorio, con un’ottimizzazione e utilizzo degli spazi esistenti.

«È bene sapere che i rifiuti speciali, amianto compreso, sono un segmento di mercato – ha ricordato Valerio Caramassi – E siccome il loro trattamento è questione delicata ritengo sia un bene che ci sia il “pubblico” a presidiare questo segmento. Sì, lo tratteremo l’amianto, perché dentro la ex Lucchini ce ne sono enormi quantità, sappiamo come lavorarlo in piena sicurezza, ed è la legge a imporci di farlo. Proprio perché il mio faro è il rispetto della legge, dico anche che certo non potremmo rifiutarci di trattare rifiuti pericolosi altrui se ci venisse richiesto. Ma deve essere chiaro anche che non mi interessa farlo, perché per me è decisivo il concetto di “prossimità”, trattare cioè quelli che abbiamo in casa, e posso dire che questo lavoro ci impegnerà molto a lungo. Dire che tratteremo anche i rifiuti speciali pericolosi come l’amianto significa che risolveremo un problema, che c’è, ed è molto rilevante, non come pensa invece qualcuno, che andiamo a crearne uno nuovo».

Bonifiche e smaltimento in sicurezza: questa una delle principali linee di business previste dal progetto Rimateria. L’altra, in sintonia con l’idea di economia circolare, riguarda come già accennato il trattamento, il recupero, il riciclo e lo smaltimento in sicurezza dei rifiuti speciali e pericolosi. La “domanda” che arriva dal territorio è fortissima: nell’area industriale di Piombino si sono prodotti per decenni, ogni anno, enormi quantità di rifiuti. Solo dalla prima indagine sul campo (datata 1998) e solo da parte Lucchini si producevano circa 1,3 milioni di tonnellate di materiali – rifiuti e scarti di processo –, ovvero 65 volte la produzione di rifiuti urbani totali. Questo per dare un esempio del pregresso, ma c’è anche il presente e il futuro cui guardare: per Piombino si prospetta un ammodernamento delle infrastrutture (tra le quali spicca il porto), un polo per la demolizione delle navi e la realizzazione del piano industriale Cevital con attività siderurgica, produzione agroalimentare e logistica collegata.

Anche a prescindere dagli scenari produttivi riguardanti la produzione di acciaio (che continuerebbe a sfornare rifiuti, come ogni processo industriale), in questa prospettiva il progetto Rimateria permette di sostenere le industrie del territorio e migliorare la chiusura dei cicli di smaltimento rifiuti, favorendo la complementarietà produttiva tra imprese (con gli scarti di una che diventano materia prima per un’altra, diminuendo il ricorso a materie prime vergini). Ovvero esattamente ciò che suggerisce l’economia circolare, e ancor prima quel principio di prossimità che è un pilastro della sostenibilità ambientale ed economica. Un pilastro, lo ricordiamo, individuato da leggi.

Quello di Rimateria si presenta dunque come un progetto articolato, che è traguardato al 2020 ma che già a partire da quest’anno inizierà ad accelerare. Ad oggi l’azionista di riferimento nella compagine societaria è Asiu (75,1%), seguita dall’azionista di minoranza Lucchini a.s. (24,9%). Nel corso del 2016 ciò che oggi rimane di Asiu (personale e asset impiantistici) confluirà definitivamente in Rimateria. Contemporaneamente si sta impostando la vendita di quote Asiu sul mercato di settore, attraendo soggetti che possano apportare know-how e autorizzazioni funzionali al progetto: dal 75,1% si potrà scendere fino al 10-20%, ma nella nuova compagine privato-pubblica le strategie e il ruolo di controllo spetteranno sempre al pubblico. Sempre nel 2016, infine, è previsto il concreto avvio del progetto di riqualificazione paesaggistica.

Un progetto dunque di ampio respiro, che prevede investimenti totali per 40 milioni di euro (da reperire attraverso l’accennata vendita delle quote con aumento di capitale, la richiesta di contributi per le bonifiche e il ricorso al mercato) e 50 nuovi posti di lavoro a regime. L’economia circolare, a Piombino, ricomincia da qui: «Dopo 150 anni di siderurgia – ha dichiarato il sindaco Giuliani – stiamo pagando dei costi ambientali e oggi possiamo dare risposte importanti attraverso il riciclo di scorie e inerti, e attraverso l’inertizzazione di ingenti quantità di rifiuti».

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Autostrade: 7 nuove gallerie per accorciare di 30 km le A24 e A25

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Autostrada Roma PecaraPer andare in auto da Roma a Pescara ci vogliono 2 ore e mezza, con il treno lo stesso viaggio dura più di 4 ore, eppure il concessionario dell’A25 ha presentato al ministero dell’economia un progetto per realizzare  40 km di nuove gallerie sul tracciato dell’autostrada tra Roma e Pescara, 7 nuovi tunnel che ridurrebbero il percorso totale di 30 km.

Legambiente spiega che «La trasformazione partirebbe nel tratto laziale, all’altezza di Roviano, con una galleria che accorcerebbe di 3 km il tracciato esistente; poi 3 tunnel sarebbero previsti nel tratto Carsoli-Torano che che accorcerebbero di 3 km e mezzo l’autostrada. 3 gallerie infine sarebbero previste nel tratto da Cerchio (AQ) fino a Bussi-Popoli con il taglio delle uscite di Pescina, Pratola Peligna e Sulmona, e una differenza di 17 km e mezzo in meno rispetto al percorso attuale». Inoltre, e gallerie previste attraverserebbero in Abruzzo il Parco Regionale del Velino-Sirente e nel Lazio il corridoio ecologico che connette il Parco Regionale dei Lucretili e dei Simbruini.

Un progetto che non piace per nulla a Giuseppe Di Marco e Roberto Scacchi, rispettivamente presidenti di Legambiente Abruzzo e Lazio, «Siamo completamente contrari ad un progetto che se fosse realizzato sarebbe del tutto inutile per le persone e completamente devastante per i territori. Pensare oggi di poter migliorare la qualità della vita delle persone mandando un’autostrada un po’ più dritta è veramente assurdo, inoltre un’idea come questa sarebbe devastante per ecosistemi importanti come quelli dei parchi e delle riserve che attraverserebbero. Tutto ciò è reso ancora più assurdo dal passaggio parallelo all’autostrada di una ferrovia rimasta all’800 nel suo percorso».

Ma c’è di più: parallelamente alla A25 scorre la Ferrovia Roma-Pescara, un tracciato inaugurato nel 1888 e che è rimasto identico ad allora, senza alcun miglioramento. Se in macchina passando dall’autostrada si impiegano circa 2 ore e mezza da Roma a Pescara, per effettuare il tragitto di 240 km, in treno da Roma Tiburtina a Pescara Centrale, ci vogliono almeno 4 ore con i treni più veloci del tracciato, con una media inferiore ai 60 km/h.

Edoardo Zanchini, vicepresidente nazionale di Legambiente, conclude: «Scegliere di puntare al miglioramento di un tracciato autostradale invece che di una ferrovia vetusta e lentissima come la Roma Pescara è quanto di più inutile si possa immaginare ed è per questo che chiediamo con fermezza al Ministero di chiudere immediatamente questa assurda storia, cestinando definitivamente il progetto. Basta grandi opere su tracciati autostradali, sui percorsi interregionali c’è bisogno invece di rilanciare il protagonismo dei tracciati ferroviari, soprattutto quelli come la Roma-Pescara, tagliati fuori dai TAV e il cui percorso è rimasto completamente identico dall’800 ad oggi senza alcun miglioramento del servizio».

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Università di Siena: inquinamento luminoso ha pesanti conseguenze sulla fauna

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Le Ghiaie illuminateLa polemica di Italia Nostra e Legambiente Arcipelago Toscano sull’eccessiva illuminazione della piaggia delle Ghiaie di Portoferraio, proprio nel bel mezzo di una Zona  tutela biologica marina,  ha suscitato un vesto interesse, a cominciare dai ricercatori del Dipartimento di scienze fisiche, della terra e dell'ambiente dell'Università di Siena, che concordano con le due associazioni sugli impatti su fauna ed habitat provocati dall’inquinamento luminoso.

Infatti i ricercatori senesi scrivono che «Ormai è ben noto come l’inquinamento luminoso condizioni in modo negativo tutti gli organismi viventi e abbia pesanti conseguenze sugli ecosistemi. A questo proposito esiste un’ampia letteratura specialistica e divulgativa prodotta negli ultimi venti anni (a titolo di esempio si possono citare i contributi di Rich C. & Longcore T., eds., 2006. Ecological Consequences of artificial night lighting. Island Press, Washington e di Camerini G., 2014. Impatto dell’illuminazione artificiale sugli organismi viventi. Biologia Ambientale, 28 (1): 65-89). Gli effetti dell’inquinamento luminoso interessano in vario grado tanto le piante che gli animali, sia invertebrati, sia vertebrati, viventi negli ambienti terrestri e acquatici. Interferenze nell’alternanza naturale giorno-notte influenzano lo svolgimento dei processi fisiologici. Ad esempio l’esposizione alla luce artificiale durante le ore notturne causa alterazioni dei ritmi circadiani e circannuali. L’inquinamento luminoso può anche portare all’effettuazione di comportamenti normalmente attuati nelle ore di luce, nel corso delle ore notturne, con gravi conseguenze in primo luogo sulla riproduzione, che dipende strettamente dal fotoperiodo».

Nella nota inviata agli ambientalisti gli scienziati dell’ateneo senese sottolineano che «Impatti altamente negativi si verificano anche a carico dei meccanismi di orientamento e migrazione di invertebrati (es. Crostacei e farfalle), uccelli e mammiferi (Chirotteri). Questi organismi, che si orientano grazie alla luce della luna e delle stelle, in presenza di illuminazione artificiale non riescono a raggiungere i siti di rifugio, alimentazione o svernamento (“effetto barriera”); tutto ciò a lungo termine può portare ad estinzioni locali e a perdita di biodiversità nelle aree soggette a intensa illuminazione artificiale.

La luminosità può condizionare i tempi dedicati alla ricerca delle fonti alimentari da parte delle specie animali; in questo modo l’interferenza della luce artificiale può far insorgere fenomeni di competizione tra specie diverse che altrimenti non si verificherebbero»

I ricercatori concludono facendo notare che «Infine, ma non ultimo, va ricordato l’effetto attrattivo operato dall’illuminazione artificiale. Le conseguenze dell’attrazione sono molteplici. La più evidente è la mortalità diretta causata da ustioni, intrappolamento, perdita di energie causata dell’attività protratta intorno alle luci o cattura da parte di predatori, attratti sul posto dalla concentrazione di potenziali prede (come avviene per i pesci e certe specie di pipistrelli) e dalle condizioni di visibilità (predatori diurni come alcuni rettili e uccelli attivi di notte grazie alla luce artificiale). Per queste ragioni dotare la spiaggia de Le Ghiaie di un’illuminazione di tipo industriale avrà senz’altro pesanti conseguenze sulla sopravvivenza dell’intera fauna dell’area e non solo sulle specie minacciate, di grande valore conservazionistico».

«Con sorpresa abbiamo ricevuto, in questi pochi giorni dal nostro primo articolo, commenti di solidarietà e condivisione – dicono a Italia Nostra Arcipelago Toscano -  È vero che le prime risposte di alcuni portoferraiesi sono state di perplessità e alcune aperta critica, ma ognuna delle persone che, inizialmente favorevole alla nuova illuminazione, ha constatato di persona le dimensioni dei nuovi lampioni prospicienti la spiaggia, non ha potuto che ricredersi».

Tra gli incoraggiamenti e i sostegni ricevuti da Italia Nostra e Legambiente c’è anche quello dell’associazione Cielo Buio, che ha pubblicato sul suo sito l’aricolo degli ambientalisti isolani, commentandolo così: «Cari amici di Italia Nostra, CieloBuio è a vostra disposizione in questa battaglia contro l'inquinamento luminoso. CieloBuio appoggia Italia Nostra e Legambiente riguardo alla lotta all'inquinamento luminoso all'Isola d'Elba». Cielo Buio aggiunge che «I LED, la propaganda dice, fanno diminuire l'inquinamento luminoso. Le immagini dallo spazio provano il contrario. I LED bianchi inquinano meno SOLO SE si installano con livelli di illuminazione almeno 3 volte più bassi rispetto all'illuminazione tradizionale al sodio ad alta pressione».

L’Associazione Astrofili di Piombino, anche a nome del CAAT , Coordinamento Associazioni Astrofili della Toscana,  coglie l’occasione per rinnovare l’auspicio a favore di una riduzione dell’inquinamento luminoso e scrive al sindaco di Portoferraio: « Il nostro intervento è dovuto sia alla sensibilità degli astrofili per la salvaguardia dell’osservabilità del cielo notturno, da conseguire anche attraverso una politica di risparmio energetico, sia per un interesse diretto relativo alle attività dell’Osservatorio Astronomico di Punta Falcone, gestito dalla nostra associazione. La porzione di volta celeste occidentale è uno dei più interessanti per le osservazioni astronomiche, e la qualità del cielo è sempre più compromessa in quella direzione a causa del crescente inquinamento luminoso in alcune località elbane. Riguardo al caso specifico dell’impianto di illuminazione installato presso la spiaggia della Ghiaie e Portoferraio, concordiamo sul fatto che le lampade siano efficacemente schermate verso l’alto, impedendo la dispersione diretta verso l’alto del fascio luminoso. Tuttavia anche altri parametri concorrono alla realizzazione di un impianto efficace e razionale. L’altezza dei pali, la distanza tra di essi, l’ampiezza e la potenza del fascio luminoso, la riflessione della luce verso l’alto da parte del piano stradale, l’uniformità con le aree circostanti.Le normative in materia, purtroppo, non sono molto restrittive.  E’ auspicabile quindi affidarsi al buon senso per realizzare impianti che siano non solo a norma, ma anche gradevolmente inseriti nel contesto ambientale e paesaggistico».

Gli astrofili piombinesi ricordano al Sindaco portoferraiese Mario Ferrari che «Le esigenze per la sicurezza possono essere conseguite anche con punti luce più bassi e luci meno potenti, e senza spreco di luce indirizzata verso altre direzioni e aree troppo estese. Il piacere di una passeggiata in riva al mare per ammirare il cielo stellato dovrebbe essere parte integrante dell’esperienza della visita di un’area di grande pregio naturalistico come le coste elbane.  Il notevole successo delle serate pubbliche di osservazione astronomica organizzate in località meno illuminate dimostrano un interesse generale non certo limitato alla cerchia di chi pratica l’astronomia amatoriale».

Gli astrofili temono che «Se l’impianto delle Ghiaie costituisse un precedente e fosse realizzato in maniera simile anche in altre spiagge, le coste dell’isola si trasformerebbero in una sorta di Luna Park.  Chi viene in vacanza all’Elba dovrebbe poter godere dello spettacolo offerto dal paesaggio naturale, senza essere abbagliato da impianti più consoni per un’area industriale. Quello che auspichiamo è una luminosità uniforme per tutte le strade cittadine. Passare da un luogo estremamente illuminato ad uno con illuminazione meno intensa, ci fa percepire quest’ultimo come troppo buio anche quando non lo è.   Questo può portare il cittadino a ritenere insoddisfacente l’illuminazione di altre aree e a richiedere una dannosa crescita esponenziale delle sorgenti luminose. A nostro avviso un buon compromesso potrebbe essere l’adozione di un livello medio di illuminazione uniforme, senza contrasti tra zone oscure e altre troppo illuminate».

Nela lettera al primo cittadino di Portoferraio gli Astrofili ammettono che «E’ comprensibile che non sia possibile smantellare l'impianto realizzato alle Ghiaie, ma ci auguriamo che si possano apporre alcune modifiche con l’obbiettivo di ridurre l’entità delle emissioni luminose. A nostro avviso le motivazioni di tale intervento non sarebbero legate solo ad esigenze, comunque rilevanti, attinenti a questioni ambientali, naturalistiche ed alle osservazioni astronomiche, ma anche ad una migliore fruizione e vivibilità degli spazi cittadini. La salvaguardia del cielo notturno è comunque uno degli elementi che valorizzano ulteriormente le aree di interesse naturalistico. La riduzione dell’inquinamento luminoso non va vissuta come una limitazione, ma come una opportunità di risparmio energetico e di sensibilizzazione per il rispetto della natura.  Inoltre l’astroturismo, già importante in alcune località sede di osservatori astronomici o di “star party”, può diventare una ulteriore significativo segmento di mercato da proporre ai visitatori».

La presidente di Italia Nostra Arcipelago Toscano, Cecilia Pacini conclude: «Il nostro articolo, ripreso con diverse interpretazioni sui media elbani, è stato pubblicato dall’emittente Controradio Toscana.  Il Wwf Val di Cornia ci ha espresso condivisione su Facebook, e cosi anche L’Unione Astrofili Senesi che gestisce l’Osservatorio Astronomico Provinciale di Montarrenti, il Gruppo Astrofili DLF di Rimini, che gestisce l’Osservatorio Monte San Lorenzo, e i Cacciatori di Stelle, Circolo Astrofili di Montecchio Maggiore (VI).  Naturalmente l’articolo è apparso su greenreport.it»

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Le lontre marine della California battono il fracking offshore di petrolio e gas

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lontra marinaIl governo federale Usa non concederà nuovi permessi di fracking offshore per estrarre petrolio e gas dal fondale marino della California. L’accordo è stato raggiunto grazie ad una causa promossa dal Center for Biological Diversity e comprende una direttiva che ordina al  Dipartimento degli interni statunitense di  analizzare l'impatto ambientale del fracking offshore.

L’environmental assessment  del dipartimento degli interni dovrà essere pubblicato  entro il 28 febbraio e cittadini e associazioni avranno 30 giorni di tempo per fare osservazioni e chiedere modifiche al l progetto di valutazione. Dopo l’annuncio dell’accordo, l’American Petroleum Institute ha rilasciato un comunicato nel quale definisce «Non necessaria» la valutazione ambientale del fracking offshore.

Kristen Monsell, dal Center for Biological Diversity,  ha spiegato che «Tutto il fracking  in mare aperto mette le comunità costiere e la fauna marina a rischio per le sostanze chimiche pericolose o per  un'altra devastante fuoriuscita di petrolio, Una volta che i funzionari federali daranno una seria occhiata ai pericoli, dovranno concludere che il fracking offshore è un gioco d'azzardo troppo grosso per i sistemi che forniscono un supporto vitale ai nostri oceani».

Da un’inchiesta pubblicata nel  2013 dell'Associated Press  emerse che erano state realizzate più di 2.000 operazioni di fracking nelle acque federali e statali al largo della California  e che tutte auorizzate, ma praticamente non controllate, dalla Division of Oil, Gas and Geothermal Resources californiana, che dovrebbe controllare il petrolio e il gas offshore. L'azione legale promossa dagli ambientalisti sosteneva che le licenze avrebbero dovuto essere esaminate e concesse a livello federale.

Con la tecnica del fracking - sia onshore che  offshore -  viene iniettata ad alta pressione nel sottosuolo acqua mischiata a sostanze per fratturare le rocce e far risalire il contenuto di giacimenti petroliferi e gasieri. Il fracking a terra è duramente criticato perché contamina le acque sotterranee con queste  tossine e perché comporta anche la produzione grandi quantità di acque di scarico che possono inquinare le acque superficiali.

Secondo il Center for Biological Diversity, i permessi dati all’industria petrolifera californiana comportano lo scarico di più di 9 miliardi di galloni all’anno di acque reflue nell'oceano Pacifico al largo della costa della California e queste sostanze chimiche del fracking offshore potrebbero essere letali per la vita marina, che comprende anche una popolazione di lontre marine della California a rischio di estinzione. E la difesa di queste lontre, molto amate dai californiani, sembra aver giocato un ruolo determinante nello stop al fracking offshore.

La Monsell ribadisce che «Il fracking offshore è un’attività sporca e pericolosa che non ha assolutamente alcun posto nel nostro mare. Il governo federale ha certamente il diritto di dire che l'industria petrolifera non può dare libero sfogo a volontà al fracking offshore».

Ma la Division of Oil, Gas and Geothermal Resources della California ha  intanto concesso più di 2.000 pozzi di fracking che «di fatto indeboliscono legge volta a proteggere risorse idriche preziose della California dalla contaminazione industria petrolifera esistente- spiega  Clare Lakewood, del Center for Biological Diversity - I funzionari petroliferi  della California hanno puntato i piedi per anni  per non proporre nuove norme per correggere le  loro evidenti violazioni del Safe Drinking Water Act federale. Ora hanno pubblicato delle norme che non risolvono queste carenze pericolose e per certi versi aumentano davvero le iniezioni delle compagnia petrolifera che rappresentano una minaccia per la nostra acqua potabile sotterranea».

Le nuove regole fanno parte dell’ Underground Injection Control program della California, lo stesso programma che non è riuscita a prevenire la gigantesca fuga di metano dell’Aliso Canyon, ancora in corso a Porter Ranch, vicino a Los Angeles.

La Lakewood conclude amareggiata: «E’ spaventoso vedere l'amministrazione Brown (il governatore democratico della California, ndr)  che, durante il disastro dell’ Aliso Canyon,   sta cercando di dare un altro pass gratuito all'industria del petrolio e del gas per mettere in pericolo la nostra acqua e la nostra sicurezza».

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I granchi toscani rivelano come le specie anfibie si adattano all’aumento delle temperature marine

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granchioDallo  studio “The trade-off between heat tolerance and metabolic cost drives the bimodal life strategy at the air-water interface” pubblicato su Nature Scientific Reports  da un team di ricercatori dell’Università di Firenze, coordinati da Stefano Cannicci, assieme ai colleghi dell’Alfred Wegener Institute for Polar and Marine Research, il più autorevole istituto per lo studio dei cambiamenti climatici in Europa,  viene fuori che «Se l’acqua è troppo calda, meglio prendersi una boccata d’aria». Alla ricerca internazionale hanno  partecipato un altro ricercatore del dipartimento di biologia del’ateneo fiorentino, Stefano Cannici, e Daniele Daffonchio, che lavora per il Red Sea Research Center della King Abdullah University of Science and Technology saudita, Folco Giomi e Hans-Otto Pörtner, dell’Alfred Wegener Institute for Polar and Marine Research e Bruce Mostert della Rhodes University sudafricana, ma è stato realizzato molto vicino alla sede della redazione di greenreport.it: sulle coste livornesi di Calafuria.

Secondo i ricercatori fiorentini, quella adottata dai i più comuni granchi di Calafuria, quelli della specie Pachygrapsus marmoratus,  «E’ la strategia adottata dai granchi delle coste rocciose toscane, che fa luce su una tappa evolutiva cruciale, quella che ha permesso il passaggio dai progenitori marini alle specie terrestri»

Grazie ai test fisiologici condotti presso i laboratori del Dipartimento di biologia dell’università di Firenze, il team internazionale di  ricercatori dice di aver «dimostrato quali sono i meccanismi evolutivi con cui le specie anfibie riescono a far fronte al cambiamento climatico che determina l’innalzamento della temperatura del mare, passando da una respirazione prettamente acquatica a una aerea, per evitare il crollo di ossigeno conseguente al riscaldamento dell’acqua».

Cannicci, associato di zoologia, spiega: «Abbiamo dimostrato per la prima volta che l’innalzarsi delle temperature delle acque oceaniche guida un processo evolutivo importante come quello della colonizzazione delle terre emerse. In un periodo come quello attuale, caratterizzato da un costante e rapido aumento della temperatura di atmosfera e oceani, una strategia evolutiva che può essere messa in atto dalle specie che vivono tra il mare e la terra è, in effetti, quella di diventare più terrestri e meno marine».

Secondo un comunicato dell’università di Firenze, lo studio «dimostra che, superata una certa temperatura dell’acqua, agli animali anfibi che possono respirare, anche stentatamente, sia in aria che in acqua, convenga uscire dal mare e tentare la rischiosa conquista della terra ferma».

Cannicci conclude: «I granchi ci permettono di capire come possa essere avvenuto uno dei passaggi evolutivi più importanti della storia, che ha portato all’evoluzione delle specie terrestri».

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Strage di elefanti in Burkina Faso: nel 2015 ne sono stati uccisi almeno 100

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Elefanti Burkina FasoIl ministro delle risorse animali e alieutiche del Burkina Faso, Somanogo Koutou. Ha annunciato che «Almeno un centinaio di elefanti sono stati selvaggiamente abbattuti nel corso del 2015». Koutou ha rivelato il terribile impatto che il bracconaggio ha sulla già decimata popolazione di elefanti del piccolo e poverissimo  Paese africano durante il discorso tenuto in occasione dell’aperura della stagione di caccia e ha invitato la popolazione e gli organizzatori di safari ad «più coesione e vigilanza per reprimere questo flagello. Il fenomeno persistente e grave del bracconaggio costituisce un freno alla conservazione ed alla valorizzazione del nostro patrimonio faunistico».

Il direttore nazionale delle acque e delle foreste, Adama Drabo, ha spiegato all’Agence d’Information du Burkina che «In Burkina Faso è autorizzata la caccia al bufalo, alla bubale (antilope) e ad una piccola quota di leoni, mentre la caccia ad elefanti, leopardi e iene è completamente vietata».

Ma la caccia per un Paese povero come il Burkina Faso è un affare: ogni anno arrivano nel Paese tra i 5.000 e i 6.000 cacciatori stranieri  e questo da lavoro a migliaia di persone e porta nelle esangui casse del Burkina Faso, svuotate dal regime dittatoriale di Blaise Compaorè abbattuto nel 2014, circa un miliardo di franchi FCFA. Ma Koutou ha sottolineato che «Il Burkina Faso dispone di una vecchia tariffazione delle risorse faunistiche, una delle più basse della su-regione. Occorre rivederla».

Per quanto riguarda i sanguinari attacchi del terrorismo islamista, che a metà gennaio hanno fatto 32 vittime Burkina Faso, e la minaccia del virus ebola Koutou ha assicurato che «Sono state prese disposizioni  di sicurezza e sanitarie per assicurare un gradevole soggiorno ai visitatori».

Tra questi visitatori si nasconde senz’altro qualche danaroso bracconiere e qualche trafficante internazionale di auna selvatica, ma Koutou ha invitato «La popolazione a liberare le aree protette illegalmente occupate» e poi ha esortato chi organizza i safari per gli stranieri (e probabilmente anche parte del bracconaggio) «A regolarizzare il loro status giuridico». In Burkina Faso ci sono 77 aree “classificate”, con diverse forme di protezione,  che si estendono su oltre 3 milioni di ettari e che ospitano 143 specie di mammiferi, 101 specie di rettili e 517 specie di uccelli.

Lo slogan della  stagione di caccia 2015-2016 è “Rafforzamento delle infrastrutture idrauliche per una crescita del bestiame selvatico nelle aree di protezione faunistica” e secondo il ministro delle risorse animali e alieutiche, «E’ un richiamo a tutti i protagonisti al fine di preservare la nostra fauna e di sviluppare la crescita idrica, perché il nostro bestiame selvatico non soffra».

 

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Febbraio, consigli e previsioni nell’attesissimo oroscopo sostenibile di Barbabietola

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Oroscopo nuovoL'oroscopo più sostenibile d'Italia torna su greenreport grazie all'immancabile Barbabietola. Scopri cosa hanno da dirti le stelle di febbraio cliccando qui: http://www.greenreport.it/oroscopo-barbabietola/

E se vuoi, scrivi direttamente commenti e domande a Barbabietola. Lo trovi qui: oroscopodibarbabietola@gmail.com

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Caccia, Wwf: chiusa una stagione con aumento di bracconaggio e diminuzione dei controlli

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Caccia WwfIeri è stato l’ultimo giorno della stagione venatoria  2015 - 2016 e, dice il Wwf, «Finalmente, sarà  pace  per  i milioni di animali selvatici che ogni anno attraversano la Penisola  per riprodursi e svernare e per quelli che hanno la loro “casa”   in Italia».

Il Panda sottolinea che «Sul profilo “culturale” bisogna registrare che la caccia è un’attività sempre poco gradita dagli italiani, stando all’ultima indagine Eurispes secondo la quale il 68% degli intervistati sono schierati contro l’attività venatoria. Sul profilo legislativo invece la novità di quest’anno è stata per tre  specie migratrici  (tordo bottaccio, cesena e  beccaccia), per le quali la caccia  si è chiusa  in alcune  regioni  il 20 gennaio, grazie  ad un provvedimento   emanato il 15 gennaio dal Consiglio dei Ministri. Il Consiglio è però dovuto intervenire nuovamente (come accaduto nella  stagione 2014/15) nei confronti di ben 7  regioni che  avevano stabilito nei propri calendari venatori  la chiusura al 31 gennaio per  le tre specie, contrariamente a quanto previsto dalle regole europee a tutela della fauna  selvatica e della biodiversità. Queste specie si trovano ora  già nella fase  prenuziale o di riproduzione, periodi  in cui non è consentita alcuna forma di caccia , secondo le norme  europee».

Il Wwf dice che la sua iniziativa è stata un piccolo passo verso il rispetto delle regole europee, ma il segnale dato dalle regioni  è stato pessimo. Per Patrizia Fantilli, responsabile Ufficio Legale-legislativo del Wwf Italia,  «Bene ha fatto il Governo ad esercitare i  poteri sostitutivi nei confronti delle regioni Toscana, Calabria, Liguria, Marche, Puglia, Lombardia e Umbria, imponendo lo stop alle  doppiette per le tre specie al 20 gennaio“ Un atto che ha evitato di aggravare la già pesante procedura  di infrazione avviata  nei  confronti dell’Italia dalla  Commissione europea (Eu-Pilot 6955/2014) due anni fa per il mancato rispetto della Direttiva (2009/147/CE) sulla conservazione degli uccelli selvatici che  vieta  la caccia durante i periodi della migrazione prenuziale, della nidificazione, della riproduzione e della dipendenza dei piccoli dai genitori. L’eccessivo prelievo venatorio sottopone la fauna selvatica, in particolare quella considerata dall’Europa in “cattivo stato di conservazione”, ad una pericolosa diminuzione   e l’Italia  alle sempre più pesanti procedure di  infrazione  e condanne , anche pecuniarie, da parte dell’Europa. In questo senso il record  negativo va assegnato alla regione Liguria che, non soddisfatta di essere   una delle  cause  maggiori  di contenzioso  con l’Unione europea ,  ha addirittura impugnato  il provvedimento  del Governo dinanzi al giudice amministrativo».

Il  Wwf, insieme  alle altre associazioni ambientaliste e animaliste,  ha segnalato ripetutamente  la grave situazione di illegalità alla Commissione Europea, già due anni fa ha scritto più volte alle regioni, ricordando loro gli obblighi di tutela della  fauna selvatica che  è «patrimonio europeo e internazionale, e non “selvaggina” di proprietà  dei governi locali né tantomeno dei cacciatori».

Il Panda   anche nella stagione venatoi 2015 -2016 «registra l’esistenza di un confine sempre più spesso labile tra attività venatoria e bracconaggio:  le oltre 350 Guardie volontarie del Wwf Italia, sempre in allerta  ed in attività per vigilare e far rispettare regole e  divieti, segnalano in continuazione episodi   di uccisioni illegali di animali , anche appartenenti a specie  protette e rare come lupi, orsi, aquile, persino cicogne».

Ma è diventato il  lupo la specie simbolo della caccia illegale, «Ccontro la quale i bracconieri si sono particolarmente accaniti in questi ultimi 3 anni – ricordano gli ambientalisti -  anche con esposizioni ‘macabre’ degli animali uccisi: trappole, lacci (anche destinati a catturare ungulati), bocconi avvelenati e impatti mortali con le auto sono stati letali per il 20% della popolazione italiana di lupo (pari a diverse decine) e di questi almeno 11 solo nella provincia di Grosseto».

Continua il bracconaggio contro i piccoli uccelli migratori, come dimostrano le trappole e richiami acustici sequestrati un po’ ovunque, soprattutto in  piccole isole come Ischia, ma anche sulla costa di Napoli e Salerno. Il Wwf Itlia evidenzia che «Le piccole  isole italiane  rappresentano importantissime aree di sosta per milioni di uccelli».

Ma la stagione venatoria 2015 – 2016 è stata contrassegnata da centinaia  le denunce  per abbattimenti di fauna protetta, o caccia con archetti,  trappole, reti ed altri mezzi vietati, oppure in periodi  e luoghi chiusi alla caccia, persino nei  parchi.

Il nucleo Wwf di Firenze ha elevato ben 25.000 euro di sanzioni che verranno incassate dalle amministrazioni locali. Nonostante l'ormai modesta attività venatoria, continuano ad arrivare al Cras Wwf Riserva Naturale Oasi Wwf - SIC "Valpredina e Misma" rapaci con ferite d'arma da fuoco. Un esemplare di sparviero è stato  recuperato ferito nella bassa bresciana. Un esemplare di Lanario (Falco biarmicus) è stato abbattuto in provincia di Campobasso. In Lombardia le Guardie Volontarie venatorie Wwf, negli ultimi vent'anni, hanno sequestrato circa 450 richiami acustici, oggi sostituiti però dagli smartphone, e dunque più difficili da individuare. Proprio in questi ultimi giorni le Guardie Wwf di Brescia hanno scoperto un nuovo impianto di cattura illegale per anatre, presso un impianto fisso di caccia nel Comune di Calvisano. L’intervento del Corpo di Polizia Provinciale di Brescia ha permesso il sequestro della struttura illegale e di cinque esemplari di anatre (4 alzavole e un codone), detenute in violazione alla Legislazione. Antonio Delle Monache, coordinatore delle Guardie Wwf Lombardi, spiega che «Si tratta del decimo impianto da uccellagione per anatidi che scopriamo nella provincia” L’attività di prevenzione e repressione del bracconaggio alle anatre è iniziata cinque anni fa, con l’individuazione di strutture predisposte per attirare e imprigionare anatre selvatiche.: impianti attivi anche a primavera, a caccia chiusa».

Il Wwf è molto preoccupato per il quadro politico: «In questo contesto certamente  non  ideale, si innesca anche la situazione  del complessivo indebolimento dei controlli venatori sul territorio. A parte l’indefessa attività della vigilanza ambientale da parte delle associazioni ambientaliste e animaliste, la cancellazione delle Polizie provinciali specificatamente preposte ai controlli venatori crea inevitabilmente un varco in cui tutti i reati connessi al bracconaggio si innesteranno più facilmente. Inoltre il momento particolarmente delicato e complesso che il Corpo Forestale dello Stato sta attraversando non consente di supplire al vuoto lasciato dalle polizie provinciali che il Governo non ha voluto assorbire in un ruolo organico connesso al CFS stesso.

Il Wwf avanza 6 richieste per proteggere la biodiversità:

Che   l’Italia si adegui finalmente alla regole  europee  sulla tutela  della fauna  selvatica,  per   almeno attenuare   gli   impatti negativi della caccia e per rendere concreta la “Strategia nazionale  per tutela della biodiversità”, approvata formalmente  nel 2011  dall’Italia, ma  la cui operatività è tuttora solamente  virtuale; Che la legge quadro sulla caccia 157/1992   non sia più considerata impropriamente l’unica legge italiana per la tutela della fauna selvatica   e   il Parlamento si impegni a discutere una “Legge quadro per la tutela della biodiversità”, di cui si parla  dal 2010 che sancisca i principi fondamentali per la conservazione della biodiversità, compresa  la tutela della fauna selvatica , definendo anche il quadro delle competenze tra Stato, Regioni e altri Enti nazionali;

Che le Regioni italiane  si rendano finalmente  protagoniste  in positivo,  innalzando il  livello di tutela della fauna tutta e non solo mammiferi e uccelli, così come  richiesto ripetutamente anche dalla    Corte Costituzionale;

Che vengano garantite, anche in futuro le funzioni specialistiche svolte sino a questo momento del CFS,  riguardanti in particolare la tutela  della fauna , della biodiversità, delle aree protette;

Che si attuino  tutte  le azioni necessarie per eliminare  finalmente  il piombo, grave  fonte di inquinamento, dalle munizioni  usate per la caccia , obbligo previsto entro il 2017 dalla  “Conferenza delle  parti”   svoltasi lo scorso  anno  a   Quito,     in applicazione  della “Convenzione  di Bonn” per la salvaguardia delle  specie migratrici;

Che  il Disegno di legge per la tutela penale della fauna selvatica, sostenuto dal WWF nell’ambito della Campagna “Stop ai Crimini di Natura” e presentato  lo scorso  anno al Senato (primo firmatario il senatore Sollo e sottoscritto da 12 senatori di tutti i gruppi)   venga rapidamente discusso e approvato,  dotando l’Italia di una legge che preveda  pene   detentive e pecuniarie  più severe per le  uccisioni  di animali selvatici rari e protetti, delle  loro  catture illegali e del  loro commercio illecito, con   l’introduzione  del “Delitto di uccisione di specie protetta”,

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Via libera alla modifica genetica di embrioni umani in Gran Bretagna

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Embrione 1BBC News ha annunciato che l’Human Fertilisation and Embryology Authority (HFEA), l’autorità di regolamentazione britannica, ha dato il via libera ad alcuni scienziati per modificare geneticamente gli embrioni umani e aggiunge che «La ricerca si svolgerà presso il Francis Crick Institute di Londra e mira a fornire una comprensione più profonda dei primi momenti di vita umana. Gli esperimenti avranno luogo nei primi sette giorni dopo la fecondazione e potrebbe spiegare cosa va storto in un aborto spontaneo».

Gli scienziati non potranno comunque  impiantare gli embrioni modificati in una donna.

L’anno scorso un team di scienziati cinesi aveva annunciato di aver effettuato, per la prima vola al mondo, la modifica genetica di embrioni umani per correggere un gene che causa una malattia del sangue.

L’annuncio è destinato ad alimentare polemiche etiche e religiose, visto che in molti temono che alterare il DNA di un embrione sia un rischioso passo in avanti per la creazione di bambini su misura. Sarah Chan, dell’università di Edimburgo, ha detto alla BBC che «L'utilizzo delle tecnologie di genome editing  nelle ricerca sugli embrioni tocca alcune questioni delicate, quindi, è opportuno che questa ricerca e le sue implicazioni etiche siano attentamente considerate dall’HFEA, prima di dare l'approvazione a procedere. Dobbiamo essere sicuri che il nostro sistema di regolamentazione in questo settore stia funzionando bene, per mantenere la scienza in linea con gli interessi sociali».

La richiesta di modificare gli embrioni umani era stata avanzata al governo conservatore britannico dalla scienziata Kathy Niakan, che l’aveva giustificata così: «Ci piacerebbe davvero capire quali sono i geni necessari in un embrione umano per sviluppare con successo in un bambino sano. La ragione per cui è così importante è perché gli aborti e l'infertilità sono molto comuni, ma non sono molto ben compresi».

L’HFEA, che ha approvato gli esperimenti, ha detto che potrebbero già iniziare nei prossimi mesi e il direttore del Francis Crick Institute, Paul Nurse, ha dichiarato alla BBC: «Sono lieto che l’HFEA abbia approvato la richiesta della dottoressa Niakan. La proposta di ricerca della dottoressa Niakan è importante per capire come si sviluppa un embrione umano sano e migliorerà la nostra comprensione delle percentuali di successo della fertilizzazione in vitro,  indagando sulle primissime fasi dello sviluppo umano».

Infatti, la Niakan, che da 10 anni studia lo sviluppo umano, sta cercando di capire cosa succede nei  primi sette giorni di sviluppo di un embrione umano.

James Gallagher, Health editor di BBC News, spiega a sua volta che «Durante questo tempo si passa da un ovulo fecondato  a una struttura chiamata blastocisti, contenente 200-300 cellule. Ma anche in questa prima fase di blastocisti, alcune cellule sono organizzate per svolgere ruoli specifici: alcune  vanno a formare la placenta, altre il sacco vitellino e altre,  alla fine, noi stessi. Durante questo periodo, le parti del nostro DNA sono molto attive. E’ probabile che questi geni guidino  il nostro sviluppo iniziale, ma non è esattamente chiaro come lo fanno e quel che va male con un aborto spontaneo».

 

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Le ultime 30 estati europee sono state le più calde da oltre 2000 anni

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estati europeeDopo la fine del XX secolo, la maggior parte dell'Europa ha vissuto mesi estivi molto caldi, che hanno raggiunto record delle temperature che a volte si sono rivelati mortali.

Se il 2015 è stato l’anno più caldo mai registrato nel mondo, l’Europa Mediterranea, a partire dalla Francia e dall’Italia, si è trovata in alcuni periodi in situazioni simili a quelle del 2003, quando un’ondata di caldo fece migliaia di vittime. Ma nel 2015 anche lontano dal Mediterraneo, come a Madrid e in molte cittàò tedesche, oppure in Svezia, nel luglio 2015 sono stati battuti tutti i record di caldo.

Ora uno studio dell’ Euro-Med2k Working Group,  pubblicato su Environmental Research Letters, dice che forse abbiamo addirittura sottovalutato i dati delle temperature estive in Europa e in particolare nel Mediterraneo.

Nick McKay, un ricercatore della School of earth sciences and environmental sustainability della Northern Arizona University  che non ha partecipato allo studio, spiega a Climate Progress che «Le ultime 30 estati  - 1986 - 2015 – sono state più calde rispetto a qualsiasi altro periodo di 30 anni, almeno dal 138 aC. L o studio è il migliore tentativo  state-of-the-art  di ricostruire le temperature estive europee durante gli ultimi 2.000 anni. Ricostruire la variabilità della temperatura degli ultimi due millenni è incredibilmente importante per comprendere i cambiamenti ai quali stiamo assistendo ora»

Lo studio dell’Euro-Med2k Working Group si basa sui dati degli anelli degli alberi e su documenti i provenienti da 10 Paesi europei ed ed è stato finanziato dalle Fondazioni scientifiche nazionali statunitense e svizzera e dala National Oceanic and Atmospheric AdministrationUsa. Hanno partecipato più di 40 ricercatori che hanno prodotto insieme modelli climatici e ricostruito il cambiamento del clima dai tempi degli antichi romani.

L’Euro-Med2k Working Group ha  documentato durante i secoli modelli climatici che vanno dall’insolitamente freddo all’insolitamente caldo. La metà del XIII secolo in Europa è sta caratterizzata  da un raffreddamento nella parte  nord-orientale del continente, ma da un accentuato  riscaldamento nelle regioni di sud-ovest. Poi  c’è stata quella che viene chiamata la piccola glaciazione, un periodo eccezionalmente freddo tra la fine del XVI secolo e l'inizio del XVII ° secolo, con anomalie negative della  temperatura in quasi mezza Europa.

Uno di ricercatori che hanno partecipato allo studio, Jason Smerdon,  Jason Smerdon, del Lamont-Doherty Earth Observatory  e professore alla Columbia University, ha spiegato che «Se si guarda, diciamo, al XX secolo,  nel passati o ci sono stati  " periodi che erano almeno comparabile i per caldo al XX secolo. Ma anche con questa sorte di maggiore variabilità degli ultimi 2.000 anni [], questi ultimi anni spiccano davvero ancora come un periodo di caldo che non ha paragoni». "

Un caldo che, secondo lo studio dell’Euro-Med2k Working Group, è particolarmente evidente nell’Europa meridionale,  dove erano d’altronde attesi i segni premonitori del cambiamento climatico di origine antropica.  I ricercatori concordano sul fatto che il sistema climatico descritto dallo studio mostra una combinazione di cambiamenti climatici causati dall'uomo e di decenni di oscillazioni climatiche naturali.

Kevin Anchukaitis, un paleoclimatologo dell’università dell’Arizona, ha detto a ClimateProgress che «Le temperature estive europee nel corso degli ultimi 2.000 anni riflettono una combinazione di variabilità legate ai cambiamenti dell'attività solare e vulcanica, i recenti aumenti dei gas serra e la variabilità naturale interna del sistema climatico».

Lo studio conferma anni di ricerche e una impressionante mole di studi che dimostrano che il pianeta si sta riscaldando a causa dei gas serra  di origine antropica, Ma Smerdon evidenzia che la ricostruzione della  storia climatica europea realizzata dall’Euro-Med2k Working Group fa emergere molte domande ancora senza risposta: « I modelli climatici e le ricostruzioni climatiche non hanno spiegato pienamente il cambiamento avvenuto durante il Medioevo e la cosiddetta piccola era glaciale che si è conclusa nel 1700. Ma questi ultimi anni spiccano davvero ancora come un periodo di caldo che non ha paragoni- Quindi la domanda è: perché i modelli non riproducono l'entità della differenza di temperatura tra l’anomalia climatica medievale e la Piccola Era Glaciale. Una possibilità è che le ricostruzioni climatiche che contabilizzano l'attività vulcanica ed  altri fattori che influenzano il clima potrebbe dover essere adeguate» e poi resta quella che Smerdon chiama «La casualità naturale del clima»."

Quando si parla di paleoclimi un certo livello di incertezza è inevitabile: la maggior parte delle ricostruzioni paleoclimatiche, e in particolare quelli basati sugli anelli degli alberi, dispone di sempre meno dati più ci si spinge indietro nel tempo. Ma i ricercatori, anche quelli che non hanno partecipato allo studio, pensano che l’Euro-Med2k Working Group il  abbia davvero fatto un ottimo lavoro. McKay evidenzia che «Gli studi sul paleoclima cominciamo a rispondere a domande come: il recente riscaldamentoè  simile ad altri riscaldamento che sono avvenuti nel recente passato? Il recente riscaldamento può essere spiegato con cause naturali?» Ma, nonostante le speranze degli eco-scettici, le cause naturali non possono assolutamente spiegare il recente forte riscaldamento in Europa ed altrove. La stragrande maggioranza degli scienziati è convintissima che il recente riscaldamento globale accelerato non ha niente a che fare con i riscaldamenti delle temperature verificatisi nel passato e che può essere spiegato solo con l'intervento umano nei processi planetari.  Un altro studio pubblicato su Scientific Reports da un team di ricercatori statunitensi e tedeschi ha rilevato che i recenti  record delle temperature hanno approssimativamente da 600 a 130.000 volte più probabilità di essersi verificati per cause antropiche che in loro assenza.

Eppure, nonostante le prove del riscaldamento climatico antropogenico siano schiaccianti, ecoscettici e politici, a cominciare dai Repubblicani americani, continuano a sminuire o negare il ruolo svolto dagli esseri umani nel global warming. Smerdon ne è consapevole, ma dice che si tratta di un’arma a doppio taglio per i politici che la usano: «Potrebbe fare diventare una persona scettica e fargli dire che non siamo in grado di modellare questo in modo molto efficace ... quindi non dovremmo preoccuparci. Ma una delle cose di cui non parla chi semina queste incertezze è che i modelli potrebbero non caratterizzare  completamente i rischi che abbiamo di fronte, quindi è un'arma a doppio taglio».

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